Il gusto del mondo nella cucina dello chef Umberto Vezzoli

The Every Place ospita Umberto Vezzoli, chef di grande esperienza internazionale con alle spalle una lunga carriera fatta di sperimentazioni, innovazione e grande riconoscimenti: il suo sapere ha contribuito in modo decisivo al successo dei ristoranti che lo hanno visto protagonista in cucina. Con lui partiamo per un affascinante viaggio che come prima tappa vede Milano, per poi approdare ad alcuni tra i più prestigiosi ristoranti del mondo, tra Tokyo, Londra, la Costa Smeralda e, infine, il centro di Roma.

Umberto, la tua carriera ti garantisce una posizione privilegiata da osservatore di movimenti e creatore di tendenze: pensiamo, infatti, alla contaminazione culturale e gastronomica che ha da subito caratterizzato la tua cucina, partendo dal 1988, anno in cui hai inventato il famoso risotto Milano-Tokyo e arrivando fino a qualche anno fa, con la tua innovativa proposta del sushi di carne. Senza dimenticare la missione sul mangiare sano che porti avanti da tanto, soprattutto in riferimento al gomasio. Puoi raccontarci le tue visioni?

Le mie visioni sono, appunto, partite molto tempo fa: dal punto in cui ho creato quello che può essere definito il mio slogan, il mio mantra all’interno della cucina, che ospita il gusto per il benessere e la libertà di mangiare sano. Da lì, inoltre, essendo entrato in contatto come dico sempre “in tempi non sospetti”, perché correva l’anno 1988, con una cucina incentrata sul benessere, caratterizzata dalla libertà di mangiare sano (mi riferisco agli ingredienti, ai condimenti, ai sughi, agli accostamenti) in modo quasi automatico ho allenato il mio pensiero, la mia filosofia, il palato e le mie capacità di entrare in contatto con degli ingredienti molto importanti, che hanno fatto la differenza.

Sono stato anche molto fortunato ad aver lavorato, proprio in quegli anni, in Giappone, perché è lì che si riesce a capire il rispetto profondo per quegli stessi ingredienti: come cucinarli, come non rovinarli, come servirli nella modalità più semplice possibile. Se ci riesci, hai raggiunto l’equilibrio. Il gomasio è uno degli insaporitori, utilizzato da sempre principalmente in Giappone ma anche in tutta l’Asia, e sostituisce il sale: nella cucina giapponese il sale non è molto presente, se c’è serve per le marinature, per le varie fermentazioni, per le conservazioni (nel segno dell’antica tradizione di conservare i cibi nel sale) ma nelle cotture viene utilizzato spesso il gomasio, che è composto per l’80%, quasi per il 90%, di sesamo, tostato e passato a mortaio. A questo si aggiunge il 5% di sale e il resto sono spezie, come curcuma, curry, cardamomo, finocchietto e paprica. Oppure si prepara con erbe aromatiche ad arbusto legnoso, come per esempio il rosmarino, il timo, l’alloro, la salvia oppure la clorofilla, il prezzemolo, il coriandolo. In Giappone ho imparato la contemporaneità di questo ingrediente che è antichissimo ed estremamente contemporaneo. Cosa significa? Significa che se sono presenti le spezie viene utilizzato per marinatura e cottura, per pesce o carne o verdure; se ci sono le erbe a clorofilla è usato per ricette e condimenti a crudo. In questi procedimenti c’è l’equilibrio, c’è il gusto del benessere, c’è la libertà di mangiare sano: per me questo è molto importante e fa parte del bagaglio di apprendimento formatosi in quegli anni che caratterizza ancora la mia cucina. L’Oriente ha incontrato l’Occidente: gli insaporitori si sono fusi con la cucina italiana, che è una cucina mediterranea, e il risultato è stato sorprendente.

Il risotto Milano – Tokio, per esempio, è nato proprio in quegli anni, sulle basi di questa cultura, di questa filosofia dell’incontro Oriente/Occidente, ma anche dal desiderio di dedicare un piatto che avesse dei luoghi come ispirazione. Ho scelto due città a me molto care, due città che mi hanno dato tanto. Milano, con il suo risotto alla milanese, un piatto iconico: in quegli anni, per il risotto alla milanese l’unico abbinamento consentito era con l’ossobuco. Io, invece, l’ho mixato con Tokyo e con la sua tartare di tonno crudo, caratterizzata dall’ingrediente nipponico per antonomasia, il pesce crudo appunto. Quando sono venuto in Italia e l’ho proposto, nel 1990, sono stato molto criticato; ma per me più c’è la critica più le cose funzionano, più quel piatto o quell’ingrediente e quell’accostamento può avere un futuro, e in effetti ancora oggi è uno dei piatti più contemporanei di sempre, anche se sono passati molti anni. Il risotto Milano – Tokyo è nato, dunque, proprio così, un mix delle parti migliori, a livello culinario, di queste due città. Se guardiamo bene la composizione del piatto e la sua filosofia, è facile comprendere l’operazione alla base della ricetta: ho tolto il superfluo e ho tenuto il significato, il significato sta nel mettere in un piatto due culture diverse tra di loro, due culture che, però, insieme trovano un equilibrio e regalano emozioni.

Questo approccio vale anche più in tempi più recenti per la tua proposta del sushi di carne, immaginiamo.

Esatto. Tante altre ricette e tanti altri miei accostamenti partono dalla filosofia dell’Oriente che incontra l’Occidente, anche nei condimenti: per esempio, ho unito soia e olio extravergine di oliva, due ingredienti che sono i più conosciuti al mondo in assoluto come condimenti e che messi insieme fanno emergere cultura, passione, un mondo da scoprire.

Abbiamo ricordato prima il tuo approdo a Roma che è una città piena di contraddizioni unica al mondo ineguagliabile anche per quanto riguarda la scena culinaria come si intersecano territorio persone e cibo nell’offerta gastronomica della capitale?

Sono venuto a Roma venticinque anni fa, nel 1999, in un momento di passaggio a cavallo di millennio e dunque pieno di grande euforia, in ogni campo. La prima cosa che ho fatto non è stata andare a vedere gli chef stellati ma i mercati rionali: volevo sapere cosa mangiava la gente, cosa si trovava al mercato di Campo de’ Fiori, quali erano gli ingredienti, le culture. Per me solo così si può capire lo stile gastronomico e lo stile alimentare di una città. E da lì, piano piano ho costruito tutto, mi sono immerso tra i ristoranti di Trastevere, dove sono nate le vere culture internazionali. Ho imparato quei gusti, quei sapori, quegli accostamenti e quel modo di cucinare, per esempio, la pasta.

In giro per il mondo la percezione è questa: Roma, ancora oggi, sotto certi aspetti è riuscita a dominare la gastronomia. Mi spiego: la carbonara è conosciuta in tutto, così come la cacio e pepe, la gricia, l’amatriciana, la coda alla vaccinara, i saltimbocca alla romana. In qualsiasi punto del mondo, da Nord a Sud, se pronunci questi nomi le persone conoscono il piatto e lo vogliono mangiare. La gastronomia romana è riuscita a essere, per così dire, virale, perché tutti sanno che cos’è. Il nome diventa una garanzia, è sinonimo di qualità, di cultura, di territorio, di ingredienti, facendo naturalmente delle distinzioni tra chi questi piatti sa cucinarli bene e chi meno. Roma con questi piatti (te ne rendi conto soprattutto all’estero) è riuscita a essere una città, gastronomicamente parlando, virale: c’è alla base la romanità, e la romanità vince.

Essere uno chef internazionale di tuo calibro significa anche possedere la capacità di comprendere i flussi di un certo tipo di turismo li posso intercettarne gusti e capire cosa può aspettarsi questo tipo di pubblico da uno chef italiano di grande maestria da respiro internazionale. Qual è l’aspetto di questo scambio culturale che ami di più?

Aver girato il mondo mi ha sicuramente aiutato a capire e a intercettare i gusti delle persone diverse e come questi gusti cambiano nei vari posti del mondo. È importante perché ti consente di creare un bagaglio continuo di esperienze e di far tesoro di quello che vedi e impari con i tuoi occhi, e aver cucinato in giro per il mondo rende molto più facile intercettare le preferenze gastronomiche. Per esempio, posso dirti che più è alto il profilo del turista o del cliente in generale, più predilige la semplicità: è un turista che vuole conoscere gusti veri e non artefatti, scoprire la perfezione di un ingrediente che è stato cucinato con semplicità per non rovinarlo.

Proprio qualche giorno fa parlavo con un cliente, un ingegnere italiano che ha fatto parte di un  progetto automobilistico che poi è diventato il più famoso al mondo e che ha avuto modo di stare a stretto contatto con personaggi di grosso calibro, e mi confermava che questa tipologia di cliente non sceglie il ristorante stellato ma posti in cui i sapori sono semplici, gli ingredienti sono eccezionali e la maestria dev’esserlo altrettanto.

Se dovessi, quindi, definire una sorta di ”regola di ingaggio“ direi di lasciar perdere tecniche particolari o sofisticate che tutti possono fare o imparare e di concentrarci su quello che noi sappiamo cucinare benissimo, sui nostri piatti, la pasta fresca, tutto quello che sappiamo fare noi. Per esempio a Porto Cervo, in Sardegna, un posto meraviglioso e meta di molte personalità di alto profilo, i piatti più richiesti erano quelli più semplici, gli spaghetti alle vongole o con la bottarga, la grigliata di pesce e i dolci tipici del posto. Questo richiede, però, lo sottolineo ancora una volta, la perfezione nella preparazione.

Al centro della tua Umberto Vezzoli Chef Academy hai messo l’esperienza e la professionalità. Questa scelta si ricollega in qualche modo alla situazione attuale del mondo della ristorazione in Italia? Cosa offre la tua Academy agli chef e ai manager di domani?

Questa modalità è proprio finalizzata a voler mettere a disposizione di chi ne ha bisogno la mia expertise accumulata nei tanti anni in giro per il mondo: oggi c’è sempre più la necessità di avere al proprio fianco un mentore, capace di affiancarti in diverse situazioni, di rilancio, di cambiamento, di partenza. La Food Academy è nata proprio in questo modo, è insegnamento, cultura e autorevolezza in quella che è la ricerca di mercato e la formazione degli chef che lavorano nei ristoranti, dei ristoratori: è un percorso per aiutarli ad avere una visione un po’ più ampia, a lungo termine. Riflettiamo insieme su una cosa, a Roma, Venezia, Milano o Firenze fino a cinque anni fa anche se il turista non riceveva dal ristoratore un trattamento rispettoso, il ristoratore non se ne preoccupava, perché lo considerava una persona di passaggio, che non avrebbe rivisto più, e si concentrava sul qui e ora, su come trarre il massimo per il suo locale da quel momento.

Ora che la pandemia ha cambiato il modo di fare turismo, è facile capire di aver sbagliato qualcosa nel comportamento del passato. Se pensiamo alla reputazione online e al meccanismo delle recensioni, capiamo che ormai non ci sono più confini, anche un turista che vive dall’altra parte del mondo può sapere come cucino io in Italia. Devi sempre avere in mente, nella tua visione della ristorazione, questi elementi: la Chef Academy può aiutarti a farlo, può accompagnarti in un percorso di cambiamento, un percorso che va verso il futuro e che lo fa partendo dal fatto che nel 2020 il mondo è cambiato per sempre, e tutti noi, come clienti e come professionisti, dobbiamo comprenderlo e comportarci di conseguenza.

The Every Place nasce come bussola e guida tra esperienze, personaggi, luoghi e prodotti di eccellenza che il nostro Paese può offrire. Tu sei un grande conoscitore di eccellenze: tra tutta la produzione agroalimentare italiana puoi suggerire ai nostri lettori che viaggiano come turisti la tua personale top five rispetto a ciò che non si può assolutamente non provare prima di ripartire?

Il turista che arriva in Italia deve sperimentare l’eccellenza del territorio: deve curiosare tra le cantine, visitare consorzi o frantoi di olio, vedere con i propri occhi come e dove viene fatta la pasta. Deve essere curioso, curioso di sapere e conoscere. Per esempio, se sei nel Cilento non puoi fare a meno di visitare il Parco Nazionale del Cilento, perché è lì che è nata molto tempo fa la dieta mediterranea che tutto il mondo ci invidia. Territori simili sono un mix incredibile di cultura, passione, persone, regalano esperienze a un turista straniero che porterà sempre con sé di ritorno nel proprio Paese di origine e gli consentono anche di riconoscere, a casa sua, il vero sapore del prodotto autentico rispetto a quelli dei supermercati o di un negozio qualsiasi. Bisogna riscoprire i prodotti veri, quelli dei contadini, perché il contadino è custode di qualità e di cultura, e dietro quella cultura c’è una persona con una visione.

Se dovessi immaginare una classifica partirei dall’olio d’oliva, extravergine, preferibilmente monovarietale. Continuerei con una buona mortadella fatta con i pistacchi, e poi una mozzarella, con il siero del latte che rilascia quel pizzico di sale che ti fa apprezzare pienamente il gusto. I pomodori quando è la stagione giusta, con il profumo inconfondibile e il sapore intenso. Il parmigiano fatto come si deve e un buon prosciutto, come il San Daniele, che nel panorama gastronomico si distingue.

Terminiamo con la tua ricetta per il sistema Italia e il settore turistico e ricettivo in generale: come deve cambiare il turismo per ritrovare la sua identità?

Dobbiamo puntare sull’antica tradizione e sulla moderna efficienza: l’Italia è una nazione fatta di turismo, ed è quel turismo che si deve valorizzare e da lì che si deve ripartire. Un turismo vero, territoriale, fatto di città d’arte, laghi, montagne, mare, colline. Dobbiamo recuperare questa tradizione e farla conoscere il più possibile, in modo serio e intelligente, rispettando i turisti. Dobbiamo essere onesti, sinceri, trasmettere empatia, passione e cultura. Bisogna recuperare il valore antico dell’ospitalità, preservare i sorrisi e la gentilezza per chi viene a visitarci. Vale anche per il cibo: i nostri piatti più conosciuti e amati nel mondo sono quelli semplici della tradizione, piatti cucinati bene, con le giuste materie prime, ma anche raccontati bene, accompagnati da storie che regalano al turista un’emozione che difficilmente dimenticherà, e che sicuramente gli farà venire voglia non solo di tornare ma di raccontare a sua volta l’Italia nel mondo.


Umberto Vezzoli ha lavorato nelle cucine delle più esclusive catene alberghiere e cucinato per importanti cariche istituzionali. Nel 1988 ha lasciato l’Italia per il Giappone, coordinando e gestendo l’apertura di tre nuovi ristoranti italiani a Nogoya, Tokyo e Osaka. Nel 1991, tornato in Italia, diventa executive chef all’Hotel Palace C.I.G.A. di Milano, dove resta per sette anni. Dal 1998 è al Ristorante Savini di Milano e dal 1999 è a Roma, come executive chef all’Hotel St. Regis Grand (Le Grand Hotel/Excelsior). Nel dicembre 2003 parte per Londra, dove apre Fiore, ristorante di alta cucina italiana a St. James con cui conquista 4 forchette Michelin, fin dal primo anno di apertura. Oggi continua a gestire Fiore e in Italia si occupa della formazione dei futuri chef attraverso la Food Academy.

Foto di copertina: Paola Panicola.